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Editoriale

È PASQUA

DALLA PRECARIETÀ ALL’IMMORTALITÀ

Lo ha confermato anche il  Presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo discorso al Senato: “L’aspettativa di vita a causa della pandemia è diminuita, fino a 4 o 5 anni nelle zone di maggior contagio, 1 anno e mezzo o 2 per tutta la popolazione italiana. Un calo simile non si registrava dai tempi delle guerre mondiali”. A causa della pandemia non solo si muore di più, ma si vive anche meno a lungo.  Questo dato dovrebbe bastare per animare, soprattutto tra noi cristiani, un dibattito e una riflessione sul problema serio del vivere e del morire, tema che la Chiesa ci ripropone in questi giorni celebrando il Mistero Pasquale. Probabilmente quanto presagito non avverrà, anche se alcuni anni della nostra vita terrena ci saranno sottratti, secondo le statistiche. La strategia che alcuni mettono in atto per eludere con l’inganno questa scomoda verità possiamo trovarla già in Seneca: nel Dialogo de vita beata egli sosteneva che per sfuggire alla verità, l’uomo ricerca soddisfazione nei piaceri dei sensi che, in realtà, non appagano pienamente, facendoci così con rapidità sprofondare nel languore e nella melanconia. In altre parole è possibile evitare la dicotomia tra vita e immortalità rifugiandosi nella felicità effimera. È questo il destino, scriveva Seneca, di quanti vivono senza passato, noncuranti del presente e impauriti dal futuro. L’individualismo e la fragilità sociale e personale che il Covid-19 ha largamente diffuso, hanno reso quelle tesi più che mai attuali: viviamo nella debolezza endemica della gratificazione immediata, praticando una sorta di “rottamazione” insensata quanto euforica di tutto ciò che è stato e siamo, psicologicamente attanagliati dalla sfiducia in relazione al futuro. Si è così inaugurata l’era in cui caratteristica diffusa della vita è la condizione di precarietà: l’esperienza combinata dell’insicurezza della posizione, dell’incertezza circa la sua durata e la vulnerabilità delle persone. Il passato non conta in quanto non dà certezze per le prospettive future, il presente è fuori da ogni controllo e si hanno buoni motivi per temere il futuro.

Questa situazione incombe su di noi come un avverso destino ed appare come una minaccia per la fede. Celebrare l’evento Pasquale, credere nella morte e resurrezione di Gesù è un’esperienza personale e comunitaria non facile se credere significa davvero dare un senso alla vita e attendere che quanto si fa o si evita di fare abbia durata e valore nel tempo. Dobbiamo riconoscerlo: è più difficile credere oggi,  tempo della precarietà. In un mondo relativamente stabile, un mondo in cui le azioni conservano valore nel tempo, coinvolgendo tutto l’arco della vita, la fede si vivrebbe meglio. In un mondo del genere, come ci ricorda il Salmo: noi contiamo i giorni e i giorni contano. Ma oggi i giorni sembrano non contare affatto e con essi, anche gli umani, che contano molto meno. Al tempo della precarietà, il vivere senza certezze ripiega la nostra vita sull’immediato; a chi può interessare il passato?… e il domani? Il vivere “adesso” appare l’unica strategia vincente. Legami e unioni sono ormai da considerarsi alla stregua dei beni di consumo anziché generativi di senso. Non a caso il termine più ricorrente oggi è transizione, ecologica, sociale, economica, ecclesiale… Essa acquisisce un vantaggio strategico rispetto alla costruzione della durevolezza. Fattori che si favoriscono e sostengono a vicenda, in questo tempo saturo, sono l’incertezza e una vita frammentata alla ricerca continua di soluzioni istantanee ed effimere. L’esperienza pasquale di Gesù di Nazareth, al contrario, interpella la nostra vita di credenti chiedendoci di decidere, attribuendo valore a qualcosa che duri nel tempo, oltre l’immediato. Fondare la nostra fede su qualcosa di durevole, saldo, resistente al “qui e ora” evanescente; edificare se stessi sulla roccia e non sulla sabbia: solo così la vita, come ci mostra la Pasqua, può essere colta in modo da trascendere la mortalità individuale. La fede che è dono spirituale, si ancora all’esperienza permanente nel tempo della vita quotidiana. L’aspettativa di una vita oltre la morte che la Pasqua ci offre, richiede il coraggio della rinuncia ad una prospettiva di precarietà e insicurezza per poter riannodare i tempi della nostra esistenza vitale in esperienze e relazioni stabili e durevoli. Solo se affonderemo le radici della nostra esistenza nella Pasqua, il nostro vivere nel tempo, quale albero piantato lungo corsi d’acqua, avrà futuro in Dio. Buona Pasqua, coraggio.

don Francesco Poli