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SO CHE MORIRÒ…

La nostra vita arriva a settant’anni a ottanta se ci sono le forze quasi tutti sono fatica e dolore. Passano presto poi noi ce ne andiamo

(Salmo 90, 10)

È solo il limite della morte a rendere possibile la vita: è la condizione di mortalità che fa di noi dei viventi. Non possiamo infatti pensare alla morte senza contemporaneamente pensare alla vita, anzi la stessa vita ha un senso compiuto allorché la morte non viene censurata. Così nella misura in cui vita e morte stanno insieme e la vita ha la meglio sulla morte, possiamo riconoscere come sia l’amore ciò a cui aneliamo. Scriveva Gabriel Marcel: “Amare qualcuno è dirgli: Tu non morirai”. In quanto umani abbiamo così il compito di tenere insieme nella nostra esistenza quotidiana la morte e la vita. Legare noi con quanti ci hanno preceduto nella vita, ci hanno dato vita, abbiamo condiviso vita… e ora sono morti. L’essere umano infatti è homo viator, un camminatore, in divenire continuo: morire e nascere. In ciò sta la sua crescita, la sua identificazione. Lo riconosce in modo efficacie S. Ignazio di Antiocchia: “Quando arriverò alla morte allora sarò un uomo”.

Purtroppo oggi il ricordo dei morti è sempre più rimosso, con il rischio che siano “dimenticati”, si raffredda sempre più velocemente il sentimento di gratitudine e la ricerca di una comunione vitale. Ne è un esempio il ricordo dei defunti nel giorno ad essi dedicato, sempre più un giorno come gli altri. E lo si è potuto constatare lo scorso due novembre nel cimitero: scarsa è stata la presenza della gente a manifestare pubblicamente la propria vicinanza a chi ci è stato vicino. La pratica della cremazione che si è rapidamente diffusa anche tra noi, al punto da coinvolgere oramai nove defunti su dieci, rischia di implementare questo fenomeno di “dimenticanza”.  Pensare la cremazione come distruzione del corpo può indurre a pensare che sia una scelta di chi non vuole più aver memoria di dove una persona finisca dopo la morte. La prassi della cremazione è, da un certo punto di vista, emblematica del nuovo contesto sociale in cui ci troviamo a vivere: la materia “serve” solo se è viva, priva di vita può essere ridotta per praticità e risparmio in polvere, al limite può essere trasformata in fertilizzante. 

Le generazioni che ci hanno preceduto avevano compreso che trattare i morti solo come dei morti significava mancare di umanità, mentre trattare i morti come se fossero stati dei vivi significava mancare di saggezza. I morti sono tali per sempre, ma vanno riconosciuti come coloro che sono stati donne e uomini per sempre partecipi della nostra comune umanità. Ricordarsi e custodire il corpo dei morti vuol significare il custodire e il fare memoria del debito che noi abbiamo verso quelle persone e quindi del nostro dovere verso la nostra storia, il passato, il presente e… il futuro. Non diamo spazio ad alcun “disgusto o repulsione” verso la materia in decomposizione. Per il corpo senza vita una semplice tomba, l’essere accolto nella terra è una cosa seria: è memoria, sito, meta di passi, luogo preciso in cui si sa che giace chi era vivo e ora è morto; ora è lì tra noi con i suoi resti in un luogo che gli abbiamo conservato e che ancora gli appartiene. Facciamo sempre più dei nostri cimiteri dei giardini, dei parchi dove sia bello e grazioso stare, coabitando: noi e loro; i vivi e i morti. Luoghi in cui noi cristiani possiamo sperimentare il dono della comunione dei santi.

don Francesco Poli

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LAUDATE DEUM.

RESPONSABILE PREVENZIONE

La recente esortazione apostolica Laudate Deum, sulla cura del creato, si prefigge di dare continuità all’enciclica Laudato Sii, proponendo di leggere il tema ecologico in chiave ambientalista, lasciando così sullo sfondo la prospettiva più ampia di una “ecologia integrale”. I cambiamenti climatici  sarebbero così “evidenti” e “innegabili”, fino quasi al dileggio di chi non ne condivida completamente la prospettiva. Anche se suffragati da dati scientifici. Così Laudate Deumnon solo amplifica il dibattito sui temi ambientali urgenti, ma si presta, suo malgrado, come motivo di divisione tra posizioni differenti o contrapposte sul tema. E ciò, soprattutto all’interno della Chiesa. Individuo nella categoria della “prevenzione” una chiave di lettura delle sfide ambientali contemporanee ed essa ci permette di avvicinare le questioni concrete relative al degrado e allo sfruttamento del pianeta non immediatamente in prospettiva quantitativa, bensì inquadrandolo in un contesto più ampio, in una visione di senso dell’abitare la terra, capace di stimolare una riflessione sui comportamenti umani.  Interpretare dunque la categoria della prevenzione in senso lato, che muova dalla consapevolezza delle urgenze e dalla necessità di tutela della natura quale bene comune, in quanto bene di tutti.

Si impone così la necessità di un riesame critico di come la cultura attuale ha affrontato la modernità. Siamo tutti consapevoli che ci sono stati dei limiti interpretativi, cioè si è pensato il creato troppo spesso come realtà senza la bellezza e la dignità di creatura, e senza considerare le conseguenze concrete ad opera degli umani, allorché l’uomo ha agito con arroganza, mirando al dominio del mondo naturale.

La Chiesa nei suoi numerosi interventi, fino ai più recenti di papa Francesco, insiste sulla bellezza del cosmo e chiede all’uomo la disponibilità ad una nuova ecologia umana che miri a “rifare l’uomo” riconciliato con il creato. Ci troviamo in un preciso snodo storico: in questi ultimi decenni a livello globale si sente, infatti, la necessità di uscire dalla crisi della modernità, di superarne i limiti conseguenti al meccanicismo, economicismo, antropocentrismo, utilitarismo, che sono stati innalzati ad una fragile egemonia, carente di una radicata consistenza morale e culturale. 

In questa prospettiva le sfide ambientali come il cambiamento climatico e l’uso indiscriminato del territorio rappresentano, oggi, un grave e inderogabile tema controverso per la comunità mondiale.

 Infatti la terra e tutti i suoi ecosistemi costituiscono un dono prezioso che abbiamo ricevuto e che dev’essere trasmesso in modo corretto alle future generazioni. Cosicché, di fronte alle sfide globali – economiche, ambientali o sociali – siamo chiamati a vivere in modo da mostrare i valori del bene comune nonché il nostro rispetto verso la natura.

In un mondo dotato di risorse naturali “non illimitate” vogliamo promuovere uno stile di vita che prevenga (è questo il significato della prevenzione nel suo senso più alto) ogni forma di spreco e di abuso verso la natura e che favorisca una doverosa e saggia amministrazione di tutte le risorse. Le problematiche ambientali di cui si discute con urgenza e le sfide da affrontare come gli effetti dei cambiamenti intervenuti non hanno a che fare solo con gli aspetti tecnici. Etica, cultura e religioni sono elementi sostanziali per promuovere ed accrescere nella comunità mondiale stili di vita dai quali partire, se si vogliono affrontare le criticità ambientali assicurando uno sviluppo umano integrale. Soltanto con un’ecologia umana, che tenga conto dei diritti, ma anche delle responsabilità che abbiamo gli uni verso gli altri, si promuoverà un’integrale educazione ecologica. In questa prospettiva il tema centrale per il presente e il futuro è riuscire a fare in modo che l’umanità possa vivere in maniera dignitosa ed equa senza distruggere irrimediabilmente i sistemi naturali. A fronte della sfida globale che oggi ci aspetta, il profilo etico che emerge è riassumibile in alcune parole sintetiche, ma, al contempo, estremamente significative: vogliamo impegnarci non a dominare, ma a prenderci cura, migliorare, comprendere. La Chiesa, che non può essere “chiesa militante”, ma “Chiesa profetica”, propone quale cura della “casa comune” l’attivazione di un’etica della responsabilità che promuova un nuovo risveglio delle coscienze per un autentico rispetto verso la creazione e verso tutte le forme di vita, contemporaneamente verso una più operosa solidarietà nei confronti degli scartati della società, con un’assunzione di una responsabilità che metta al centro  dello sviluppo sostenibile i poveri, il pianeta e le giovani generazioni.  Una rinnovata responsabilità etica, di cui tutti siamo attori, a cui nessuno può sottrarsi e che parta da un serio esame di coscienza sui nostri comportamenti. È questa responsabilità la risposta più attrezzata per fronteggiare quel disagio della civiltà, sempre più manifesto, che è anche espressione di un’inadeguatezza del modo di pensare e delle pratiche di vita nei confronti delle sfide che l’attuale sviluppo del pianeta esige. Così potremo, sinceramente, dire: Laudate Deum.

don Francesco Poli

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CRISTIANI, PRIMA E DOPO “LA CURA”

“O tu di poca fede, perché dubitasti?”, chiese Gesù a Pietro, chiamato dal Maestro a camminare sulle acque, con Lui. Il racconto evangelico (Mt. 22 – 36) mostra Gesù che sulle acque va incontro agli apostoli impauriti sulla barca nel lago in tempesta, e invita Pietro a raggiungerlo. La scena è una rappresentazione della scelta cristiana che comporta sia il riconoscimento della potenza salvifica del Maestro come pure il cammino del credente dal turbamento al coraggio della fede, attraversata dal dubbio e dalla paura di affogare. È il dubbio il passaggio con il quale dovremmo tutti confrontarci. Lo si può attraversare in un doppio senso di marcia. Nel testo evangelico di riferimento il dubbio sta a metà strada del cammino tra l’incredulità e la fede. Nella direzione opposta il dubbio sta a metà strada tra l’adesione credente di chi vive la vita religiosa e l’incredulità dell’abbandono della fede. Per una fede genuina e adulta, è necessità che il non credente dubiti del suo non credere e che il credente dubiti del suo credere. 

Dubitare sembra essere il passaggio obbligato per raggiungere la fede adulta o, viceversa, per il ritorno dalla fede all’incredulità. Il necessario esercizio del dubitare, considerato oggi come “un ferro vecchio”, porta l’essere umano a comprendersi qual è: come unità complessa, al tempo stesso egli è un essere biologico, psicologico – spirituale e culturale. Unità complessa che non prevede scissioni: da un lato il cervello e il corpo umano in biologia, dall’altro la mente in psicologia… Portiamo in noi non soltanto l’animalità biologica, ma la vita dalla sua forma primordiale, siamo costituiti da migliaia di cellule, portiamo in noi la storia stessa della vita del pianeta. La natura è in noi, come noi siamo nella natura. Ciò che è più naturale in noi come il nascere, il mangiare, l’amare, il morire è allo stesso tempo ciò che vi è di più culturale.

Oggi, dopo innumerevoli conquiste scientifiche da quelle straordinarie di Carlo Linneo a quelle di Adam Smith, l’essere umano è definito “sapiens” per la ragione, “faber” per la tecnica e “economicus” per l’intraprendenza. Infatti, nello scorrere della storia questa suddivisione si è sempre più consolidata fornendo alla ragione, nella sua razionalità, una egemonia totalizzante, trascurando prima e quindi espellendo dalla ragione solo razionalista altri aspetti della complessità umana quali la dimensione irrazionale e quella mitico-spirituale, il mondo dei sentimenti e delle passioni. L’esperienza fattuale invece ci consegna un’altra storia: mostra come ragione e passione possano stare insieme. Le passioni, per ciò che le concerne, nutrono e orientano il vivere, ma vanno sempre illuminate da quella torcia che è la ragione, altrimenti la passione può portare alla follia o alle conseguenze estreme dell’irrazionale come ben sappiamo dai fatti di cronaca. D’altro lato la ragione non deve rimanere fredda, né solo calcolatrice e razionale, rinchiusa nella sua “logica”, interessata, ma deve farsi ragione “sensibile” a tutto ciò che ci interpella in quanto esseri umani. A tale proposito scrive Edgar Morin: “Adesso la nostra epoca conosce il delirio dei fanatismi che si moltiplicano, la follia delle illusioni che si credono razionali, le cecità di una razionalità puramente tecnica ed economica, che ignora le realtà profonde dell’umano”.

Possiamo affermare che l’esercizio necessario e urgente del “dubitare” apre alla possibilità della fede, del credere, come anche del non credere: alla decisione di decidere per la vita anziché per il “tirare a campare” e così sprofondare nel nulla.  La missione salvifica di Gesù per raggiungerci attraversa lo spazio che intercorre tra queste possibilità, aprendo così la via all’umanizzazione dell’uomo. Il vangelo ci interroga sulla condizione del vivere quotidiano: non allineati alla visione dominante che vuole che ogni soluzione, ogni salvezza siano di quella natura tecnico-scientifica che esclude dal proprio orizzonte l’importanza e la forza dell’immaginario, dell’irrazionale, del mito e della religione. 

L’essere umano non è il padrone onnipotente delle scienze e delle tecniche, è piuttosto un essere debole, disarmato e fragile. Saremmo ciechi se trascurassimo o eliminassimo dal nostro orizzonte vitale le dimensioni non razionali. È fondamentale riconoscere e dare spazio al bisogno di fede, di speranza, rendendoci capaci di rigenerare vita. Consapevoli che ciò che non si rigenera degenera. Pietro che cammina sulle acque rappresenta noi e la Chiesa: quando volgiamo gli occhi a Gesù, attraversando il dubbio nella direzione della fede abbiamo fiducia in Lui e riusciamo così ad avanzare; viceversa, quando, nel dubbio, anziché orientati dalla e alla fede guardiamo solo alle nostre difficoltà, ci impauriamo e affondiamo.

La scarsa attitudine oggi nella pratica del dubitare sembra accellerare il disimpegno nei confronti della domanda religiosa che attraversa l’umano: cosa significa avere una fede adulta? Ci consegna a una condizione del cristianesimo che in questi anni si evidenzia con tutte le sue conseguenze, come quando si finisce “una cura”. 

Il venire meno, nel corso degli ultimi decenni, dell’apertura all’umano attraverso il passaggio necessario dal dubbio alla fede, ha offuscato il senso religioso mostrando, soprattutto alle nuove generazioni, ciò che sta davvero a cuore agli adulti. Lo scrive con efficacia Armando Matteo: “Nel cuore degli adulti di oggi c’è posto per tutto: dalla squadra di calcio non a caso detta del «cuore» all’auto dei sogni, dalla ricerca di sempre maggiore disponibilità di denaro all’ossessiva ricerca di restare «sempre giovani», dalla possibilità di un esercizio della sessualità e della propria capacità di attrazione erotica senza più alcun limite biologico sino alla smisurata apertura a tutte le novità che l’apparato tecnologico mette a disposizione dei consumatori odierni, dalla volontà di non far mancare nulla ai figli al desiderio di tenerli con sé per sempre. Ecco, in quel cuore, c’è posto per tutto tranne che per l’esperienza religiosa”

Questa “la cura” a cui ci siamo sottoposti in questi ultimi quarant’anni, quella che ha portato al mancato raggiungimento del credere, di una “fede adulta” da mostrare nella vita anche alle giovani generazioni. E le cause sono da ricercarsi da un lato nella mancanza di fede degli adulti, dall’altro in uno scadente investimento pastorale che non ha promosso il passaggio al dubitare, all’interrogarsi sull’essere credenti e aprire così all’incontro personale con Gesù e approdare ad una fede adulta. È infatti la fede di noi adulti, quando c’è, a generare la fede adulta nei giovani e nella comunità sottraendo quest’ultima alla pura conservazione di pratiche pastorali rivolte esclusivamente agli anziani, ai bambini e alle bambine. Come se la vita cristiana fosse “il mondo dei vecchi e dei bambini”, relegati nel loro mondo fatto di nostalgie o infantilismi, estraneo al mondo degli adulti che infatti, sembrano vivere “come se Dio non esistesse”. 

Ora, l’allontanamento dalla vita cristiana, amplificato dalla riduzione della presenza dei fedeli alla pratica religiosa della messa domenicale, come anche dalla riduzione della richiesta di sacramenti, dal crescente disimpegno dei volontari e catechisti, non sarebbe quindi da attribuirsi esclusivamente alla crisi pandemica che pure ne ha accelerato il corso. La causa principale ci sembra essere il mancato esercizio della dimensione critica della fede, il non porci più domande, alla ricerca di risposte solo funzionali o interessate. È tempo di farsi carico della fede degli adulti, di suscitare il senso di Mistero di Dio. Per poter andare quali testimoni credibili alla ricerca di quanti sono lontani o si sono allontanati dal Signore, è necessario che rendiamo adulta la nostra fede nella comunità di riferimento. Ripartiamo dalla domanda del Maestro: “O tu di poca fede, perché dubitasti?”.

a cura di don Francesco Poli

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PAROLE PROFETICHE… TRASCURATE O TRADITE

L’HUMANAE VITAE SU CONTRACCEZIONE E ABORTO

A distanza di cinquantacinque anni – era il 25 luglio 1968 – dalla pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae di papa Paolo VI, le questioni e le sfide legate al tema della trasmissione della vita (contraccezione e interruzione della gravidanza) e in genere della vita sessuale della coppia e del matrimonio appaiono ancora centrali nel dibattito ecclesiale e sociale. 

Nella Introduzione alla psicanalisi, Sigmund Freud scriveva: «è una caratteristica comune a tutte le perversioni (sessuali) quella di accantonare la riproduzione come obiettivo (fine). In realtà è questo il criterio con cui giudichiamo perversa un’attività sessuale – se nel suo fine si distacca dalla riproduzione e persegue l’appagamento indipendentemente da esso». Il Codice di Diritto Canonico definisce il matrimonio in termini di fini: «Il fine primario del matrimonio è la procreazione ed educazione della prole; il fine secondario è l’aiuto reciproco e il rimedio della concupiscenza» (canone 1013). Il matrimonio è definito nei termini dei suoi fini peculiari ai quali è naturalmente ordinato e che pertanto ci dicono cosa esso debba essere.

Nonostante la crisi del matrimonio, anche come sacramento, e il suo consistente abbandono in termini di adesione delle giovani generazioni, possiamo affermare come uomini e donne siano ancora oggi attratti dal matrimonio per amore dei beni che esso incorpora, a cominciare dal bene dei figli, dal momento che è questo, in ultima analisi, a spiegare l’unione nuziale e l’atto coniugale. In senso più immediato, sono attratti anche dal bene del reciproco aiuto o amicizia che la coppia trova nel matrimonio. Così, sono i fini a spiegare cosa sia e cosa renda possibile tale istituzione. La persona non può spezzare il legame tra il fine unitivo e quello procreativo del matrimonio poiché sono essi che ne costituiscono l’autentica essenza, lo spirito fondamentale. Appare quindi irragionevole agire contro un bene come se fosse un male. 

Agire contro un bene come se fosse un male non è etico e in ciò possiamo individuare l’irragionevolezza e il disordine della contraccezione. Questa, infatti, implica sempre un agire altro dall’atto coniugale, e quell’agire altro è diretto specificamente contro uno dei beni (o fini) che di fatto danno significato all’atto stesso coniugale, ossia il bene procreativo: i figli. La contraccezione, atto scelto e voluto contro un bene insito nell’atto coniugale in cui la coppia ha scelto di impegnarsi, nel nome stesso dell’atto ne descrive la malizia, è contra: contro il bene procreativo. É qui che cogliamo il nesso inestricabile tra contraccezione e aborto. Sant’Agostino ne scrisse: «[La licenziosa crudeltà della coppia coniugale] o la loro crudele licenziosità talora conduce a tali estremi da procurare veleni sterilizzanti e, se questi non sono disponibili, a sopprimere in qualche modo il feto che è stato concepito nel grembo ed espellerlo. Vogliono che la loro prole muoia prima di venire all’esistenza, o, se già vive nel grembo, che muoia prima della nascita» (Sant’Agostino, Sul matrimonio e la concupiscenza). 

In un certo senso era “naturale” che Planned Parenthood da alfiere della contraccezione diventasse il più grande propugnatore di legislazione abortista nel mondo e i figli e la fertilità considerati alla stregua di mali, quasi “malattie”, da evitare o eliminare. Di fatto non c’è mai stata una società che abbia accettato la pratica generalizzata della contraccezione senza poi accettare e sostenere successivamente anche la pratica dell’aborto. Nel 1968 Planned Parenthood pubblicò un pamphlet intitolato Plan Your Children for Health and Happiness in un passo del quale si poneva la domanda: «Il controllo delle nascite è aborto?». La risposta dell’annotazione era: «Assolutamente no. Un aborto sopprime la vita di un bambino dopo che è iniziata. Esso è pericoloso per la tua vita e la tua salute. Ti rende sterile, così che quando desideri un figlio non potrai averlo. Il semplice controllo delle nascite pospone l’inizio della vita». Oggi Planned Parenthood è il più grande fornitore di aborti nel mondo, poiché la logica della contraccezione si è dispiegata da sé.

È bene che noi cristiani rileggiamo e meditiamo l’enciclica di papa Paolo VI. Infatti, una delle sfide alla Humanae Vitae, cinquantacinque anni fa, adesso e in futuro, è certamente la minimizzazione dell’immoralità della contraccezione, come se potesse costituire una “scelta saggia”, mentre essa è l’autentica porta di ingresso verso una mentalità anti-vita e verso gli orrori dell’aborto. Mentalità e orrori che stanno oggi davanti ai nostri occhi.

a cura di don Francesco Poli

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PRETI A SERVIZIO DELLA GIOIA

Alla domanda: “Perché i seminari si svuotano e le vocazioni sacerdotali sono sempre meno in Europa?”, non si può che rispondere: “Perché non siamo più capaci di gioia e di speranza”. I preti, infatti, sono nella Chiesa e nel mondo a servizio della gioia e segno della speranza. Se la gioia e la speranza scarseggiano, anche i sacerdoti vengono meno. Se, poi, in un mondo soddisfatto di cose materiali, qual è oramai il nostro, la gioia e la speranza sono percepite addirittura come superflue, anche il prete diventa anacronistico. La crisi delle vocazioni alla vita religiosa, e in particolare al sacerdozio, è la conseguenza della crisi di civiltà che l’occidente sta attraversando. È in questa particolare situazione, perciò, che l’ordinazione sacerdotale e la prima messa di un figlio della nostra chiesa di S. Sisto ci fanno sperimentare in questi giorni il cattolicesimo come la religione della gioia e della speranza. 

Ma cosa accade quando si diventa prete, cosa inizia a partire da quella che è la “prima messa”? Dove cogliere l’essenza del sacerdozio oggi, nel tempo in cui il modello sacerdotale è percepito dalla nostra società come un “ferro vecchio”? In realtà il prete novello, nel momento in cui è donato alla Chiesa con l’ordinazione sacerdotale, permette alla Chiesa stessa di riscoprire e risignificare l’esclusività del servizio sacerdotale per una comunità. Comunità chiamata a riaffermare con fede che il Dio in cui crede sia il Dio del cielo e della terra, e così riscoprire che lo specifico del ministero sacerdotale risiede nel celebrare le Lodi di Dio attraverso l’Azione liturgica fatta di Parola e Pane. Parola e Pane, due elementi che compongono La messa e che consegnati nella comunità in preghiera dalle mani del prete, sono cuore e segno della vita credente e ne costituiscono l’identità, unico antidoto contro la decomposizione in atto nella nostra società material-edonistica. Il sacerdote si fa così, per chiamata, portatore agli uomini del Dono della Parola e dell’Eucaristia mostrando Gesù come Via, Verità e Vita. In una società che ipotizza “la morte di Dio”, che confida solamente nelle proprie abilità e nella felicità momentanea e che, pur originata da un’esperienza credente, si fa sempre più sospettosa e ostile verso il cristianesimo, rinnegandolo e recidendo con esso ogni legame. 

Proprio qui e adesso Dio vuole mostrarsi vivo e non morto: Lui c’è, la Parola e l’Eucaristia rimangono anche in un mondo estraneo e talvolta nemico. Il Suo cuore ancora batte per l’umanità anche quando questa Lo ignora, rinnega o bestemmia. Ed è proprio qui che il prete trova il motivo originario per la sua missione e la sua azione pastorale: l’Azione liturgica rivela la presenza del Crocifisso – Risorto e ci fa Chiesa chiamandoci alla fede. Con la celebrazione della messa i credenti accedono alla propria vera identità umana: figli del Padre in Gesù Cristo. I giovani preti che in questi giorni celebrano per la prima volta la messa scoprono e mostrano a noi come Dio sia necessario perché l’uomo sopravviva; come in specie oggi siano necessari i preti perché rimanga viva la Parola e sia possibile avere Pane eucaristico. Le città che l’uomo pianifica e dove pensa solo a se stesso si fanno sempre più smart, ma al contempo sono sempre più invivibili. Hanno bisogno di respirare l’eterno perché possano avere ancora una dimensione umana. Gli uomini hanno bisogno di imparare di nuovo a cercare e vedere nell’altro e nella creazione il volto di Dio per affrontare la vita con gioia e speranza. Non c’è necessità solo di nuove tecnologie o di una transizione che sembra non avere capo né coda. Nel decomporsi della nostra società occidentale si ha sempre più bisogno di lasciarci incontrare da Dio. E il prete è al servizio di questa gioia, della nostra gioia. Ringraziamo il Signore perché la nostra Chiesa di Bergamo ancora vive, perché ancora celebriamo liturgie nelle nostre chiese parrocchiali, perché oggi ancora una volta, in questa comunità di Colognola, un giovane uomo ha osato dire “Sì”. Dio chiami ancora altri a sé perché non vengano meno La Parola e il Pane. E perché nelle nostre città risuoni ancora l’Inno di Lode e di ringraziamento al Padre di tutti.

don Francesco Poli