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“ALZATEVI, ANDIAMO!” 

La fede, la responsabilità e il coraggio.

“Quando giunse la “sua ora”, Gesù disse a coloro che erano con Lui nell’orto del Getsemani, Pietro, Giacomo e Giovanni, i discepoli particolarmente amati: “Alzatevi, andiamo!”. Non era Lui solo a dover “andare” verso l’adempimento della volontà del Padre, ma anch’essi con Lui. Anche se queste parole significano un tempo di prova, un grande sforzo e una croce dolorosa, non dobbiamo farci prendere dalla paura. Sono parole che portano con sé anche quella gioia e quella pace che sono frutto della fede. In un’altra circostanza, agli stessi tre discepoli Gesù precisò l’invito così: “Alzatevi e non temete!”.

(Giovanni Paolo II)

L’espressione: “Alzatevi, andiamo!”, con la quale è rappresentato il cammino parrocchiale, è tratta da un passo della parola di Gesù ai discepoli nell’imminenza della passione. È chiaro il suggerimento di un’intenzionalità ben precisa: lasciare che la Parola di Gesù, Amore Misericordioso, ci risvegli, ci rialzi se necessario, e ci metta in cammino. È una parola di speranza e soprattutto una parola di rinascita alla vita, risurrezione, molto opportuna in questo tempo della storia. Non a caso il termine originale greco che noi traduciamo con “alzatevi!” è egheiresthe, un verbo che gli evangelisti usano anche per indicare la risurrezione di Gesù (cf Mc 16,6; Mt 27, 6-7). “Risorgete!” quindi.

“Alzatevi, andiamo!”. La locuzione “Alzatevi, andiamo!” la troviamo in due contesti che i Vangeli ci riportano:

• nel Vangelo di Gv, all’interno dei discorsi dell’ultima cena (Gv 14, 30-31);

• nel Vangelo di Mc 14,42 e Mt 26,46, all’interno dell’agonia di Gesù nel Getsemani.

“Queste cose vi ho detto quando ero ancora con voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto. non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo; Egli non ha alcun potere su di me, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato. Alzatevi, andiamo via di qui”. Gv 14, 30-31

Nel testo di Giovanni l’“Alzatevi, andiamo!” è preceduto da un “bisogna che…” con cui Gesù lascia presentire che di fronte alla passione che lo attende è necessario che il mondo sappia che Lui ama il Padre e questo amore si traduce nel fare sempre quello che il Padre gli ha comandato. L’amore verso il Padre è la motivazione, la molla segreta che impronta tutta la vita di Cristo e ne conferma la determinazione, il rigore nell’adempiere la Sua la volontà. Amore e obbedienza al Padre sono inseparabili nella vita di Gesù, e devono esserlo anche nella vita dei discepoli: “Se uno mi ama osserverà la mia parola”.

“Frattanto giungono in un podere chiamato Getsèmani. Dice ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, intanto che io prego».  Quindi, presi con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, incominciò ad essere preso da terrore e da angoscia. Perciò disse loro: «L’anima mia è triste fino alla morte. Rimanete qui e vegliate!». Quindi, portatosi un po’ più avanti, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. Diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a Te. Allontana da me questo calice! Tuttavia, non ciò che io voglio, ma quello che Tu vuoi”. Tornato indietro, li trova addormentati. Perciò dice a Pietro: «Simone, dormi? Non hai avuto la forza di vegliare una sola ora? Vegliate e pregate, affinché non entriate in tentazione. Certo, lo spirito è pronto; la carne, però, è debole». Allontanatosi di nuovo, pregò ripetendo le stesse parole. Poi di nuovo tornò e li trovò addormentati. I loro occhi, infatti, erano appesantiti e non sapevano che cosa rispondergli.  Torna ancora una terza volta e dice loro: «Continuate a dormire e vi riposate? Basta! È giunta l’ora: ecco che il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco: chi mi tradisce è vicino». Mc 14,32-42

Nel Getsemani “Alzatevi, andiamo!” è preceduto dalla drammatica, intensa preghiera nell’orto. Sono le parole decisive dopo il terribile conflitto nel quale Gesù sembrava naufragare. “E cominciò a sentire terrore e angoscia”. Per la prima volta, in tutto il Vangelo, insorgono nell’animo di Gesù questi sentimenti. E solo il vangelo di Mc li riporta con tanto realismo. Dapprima è la paura (“thambos”), cioè il timore, il tremore, la costernazione, che lo spaventa. Gesù, come Messia e Figlio di Dio, aveva predetto la propria passione e morte; ne era perfettamente consapevole, ma, in quanto uomo, ora ne sente, molto vicina, la mano gelida e reagisce con paura e trepidazione, come ogni mortale. Poi c’è l’angoscia e un senso di abbattimento e smarrimento tali da far perdere le forze. Pensando ad analoghe situazioni che possono esserci capitate, possiamo comprendere, seppure parzialmente, ciò che ha provato Gesù. Di fronte al tragico momento che Egli sta vivendo ci colpisce la reazione dei discepoli: addormentati, con gli occhi pesanti, muti e sgomenti. Questo sonno e questa pesantezza sono ciò che spinge Gesù a dire, perché risorgano,: “Alzatevi, andiamo!”. Gesù, più che mai uomo in questa drammatica lotta, trova nella preghiera la forza per trasformare il terrore e l’angoscia provati poco prima in risolutezza e coraggio . L’alzatevi e andiamo è frutto, conseguenza della preghiera. È venuta l’ora,… alzatevi, andiamo!”. Dunque, dopo la preghiera, Gesù ha accettato l’ora e il modo attraverso i quali sarebbe dovuta avvenire la nostra salvezza. Il verbo “alzatevi”, dicevo all’inizio, è quello tipico usato per la risurrezione. Come se Gesù dicesse a quei discepoli e a noi: “Risorgete! svegliatevi dal sonno”. Questa è la provocazione e l’invito che Lui ci rivolge: “andiamo!” e non “andate!”. Perché Lui cammina sempre con i suoi, precedendoci con l’esempio di un Amore che si dona fino in fondo. L’alzatevi-andiamo non è l’invito a una passeggiata, ma a seguirLo sul cammino della croce, che è donazione totale di sé, espressione massima del Suo amore misericordioso. Gli apostoli non sapranno rispondere in questo momento all’invito di Gesù. “Dove io vado, tu ora non puoi seguirmi!” dice Gesù a Pietro che presume di sé. Eppure, la parola rimane lì: “Alzatevi, andiamo!”. Gli apostoli si alzano, ma non sono ancora del tutto “risorti” per seguirlo sulla strada che Egli indica di seguire.

Le nostre vite hanno bisogno di “risorgere” (alzatevi!) e di “mettersi in movimento” dietro a Gesù (andiamo!). Ci si domanda quali situazioni della nostra vita vengano rappresentate in questa sonnolenza e mutismo dei tre apostoli nel Getsemani, dai quali Gesù li vuole risvegliare. Nella sonnolenza si possono ravvisare ben rappresentati certi stati d’animo che ci intorpidiscono e atrofizzano le nostre energie migliori. Nel mutismo dei tre apostoli riconosciamo la nostra incapacità di pregare, la chiusura in noi stessi, l’amarezza e lo scoraggiamento, l’incapacità di comunicare con gli altri in senso profondo, la mancanza di sensibilità. Come quella dimostrata dagli apostoli nel Getsemani. Come la mancanza di speranza dei discepoli di Emmaus in fuga dalla comunità. I rimedi non scarseggiano: la preghiera e la vigilanza, anzitutto, che Gesù stesso raccomanda agli apostoli nel Getsemani. Preghiera spontanea, intensa, profonda, insistente, che nasca dalla vita e arrivi alla vita, nutrita dal cibo solido della Parola di Dio e dei sacramenti. Tutto ciò concerne, coinvolgendolo, il livello personale di ciascuno di noi. Sicuramente la misericordia del Signore ha operato in noi tante meraviglie e, se consideriamo il cammino fatto fin qui, riconosciamo come il Signore ci ha guidati, guariti, trasformati, con una pazienza e tenerezza indicibili. Non solo, anche a livello comunitario e di gruppo possiamo avvertire situazioni che hanno bisogno di risorgere e di mettersi in movimento. È l’amore del Signore che ci ha riuniti insieme. Questo, però, non garantisce di per sé la perfetta comunione tra noi. Chiediamoci allora se i nostri gruppi appaiano a volte più spenti che spinti dall’amore di Cristo. Demotivati e trascinati più che trainanti. Delusi più che portatori di speranza. A noi, come ai discepoli di Emmaus, Gesù si affianca nel cammino, per ravvivare la speranza, per far ardere i nostri cuori con la sua Parola, per darci se stesso nel Pane di vita e aprire i nostri occhi. Il frutto di questo incontro con Lui è il ritorno alla comunità, da cui possiamo essere tentati di fuggire. Abbiamo bisogno di ritrovare la “passione” per Gesù-amore misericordioso, la partecipazione, l’interesse per la comunità di cui facciamo parte e lo slancio per la missione che il Risorto ci affida: portare nel cuore del mondo la Sua misericordia, soprattutto ai più bisognosi. Questa passione è frutto della fede e dell’amore, ed è quella che opera prodigi nella nostra vita: “In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che Io compio e ne farà di più grandi, perché Io vado al Padre” (Gv 14,12).  Credere in Gesù, nel Suo amore, e poggiare su questa fede tutta la nostra vita è ciò che ci motiva e ci spinge. 

Aspetti concreti del nostro alzarci e camminare con Gesù.

Laici formati. Il primo aspetto di importanza fondamentale è quello di qualificare la nostra formazione. La grandezza e bellezza della missione, richiede non solo persone ad essa dedite e convinte del dono ricevuto, ma anche preparate alle sfide del nostro tempo. Come dire: attrezzate a dar ragione della speranza che è in noi. La necessaria dimensione ecclesiale e anche la giusta preparazione culturale. Il tutto con quello stile tipicamente laicale che rende efficace in determinati contesti la trasmissione dei valori. 

Laici sinceramente uniti per essere capaci di missione. “La comunione e la missione vanno profondamente unite, si compenetrano e si implicano mutuamente, fino al punto che la comunione costituisce la fonte e il frutto della missione” (Christifideles Laici, 32). La sfida dell’unità è quella fondamentale che Gesù ha proposto ai suoi discepoli: “Da questo riconosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni verso gli altri”. Gesù ci ha esortati insistentemente a “rimanere nel Suo amore”, ad amarci come Lui ci ha amati, perdonandoci come Lui ha perdonato noi, dando la vita anche per chi lo uccideva.

Laici in prima linea nel portare l’amore misericordioso nel mondo. Nei vari contesti nei quali siamo presenti, c’è sicuramente l’impegno ad essere testimoni gioiosi di Gesù e del Suo amore. Ma ciò è una sfida  che richiede, come ho già detto, una fede convinta e appassionata per Cristo, e anche una buona dose di coraggio e creatività: l’amore è sempre creativo, audace e innovativo. Una chiesa di laici impegnati o è missionaria o non è chiesa. 

Laici attenti alla formazione dei ragazzi e dei giovani. Chiediamo al Signore che ci ispiri forme di intelligente e generosa collaborazione nel campo della pastorale giovanile. È anche questa una sfida urgentissima, che ci richiede un discernimento attento e una collaborazione generosa. Sappiamo anche che la famiglia naturale è il primo nucleo della fede e anche il primo “seminario”, dove cioè il Signore semina il germe della vocazione. L’Amore Misericordioso ha bisogno di operai per la grande messe del mondo. Anche qui “Alzatevi, andiamo!” deve trovare un terreno concreto di attuazione. La Vergine Maria, che dopo l’annuncio dell’angelo, si alzò e andò in fretta da sua cugina Elisabetta, ci insegni e ci ottenga la fede viva che lei ha avuto e il dinamismo dell’amore che l’ha spinta sulle orme del suo Figlio. Maria ci ottenga dal Signore la stessa fede, lo stesso coraggio e lo stesso amore.

a cura di don Francesco Poli

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LAICI DI CHIESA

Nel cammino sinodale che la Chiesa, su impulso di papa Francesco, sta vivendo e che si intreccia con la ricorrenza del sessantesimo anniversario dall’apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962), le Diocesi italiane sono chiamate a fare proprio il documento della Conferenza Episcopale italiana I cantieri di Betania. Prospettive per il secondo anno del cammino sinodale. Ci attende un tempo di ascolto da mettere in atto nella forma di cantieri con alcuni temi emersi dalle riflessioni e valutazioni dello scorso anno: il cantiere della strada e del villaggio, il cantiere dell’ospitalità e della casa, il cantiere della diaconia e della formazione spirituale. Un cammino di popolo, si direbbe, in cui i laici hanno l’opportunità di dimostrare il loro protagonismo pastorale. Un cammino, quello sinodale, che sgombera il campo da molte discussioni sterili e da certe chiacchierate da “bar sport” con le quali, recentemente alcuni si sono cimentati, dissertando circa il ruolo dei laici nella Chiesa e la “peste” del clericalismo.

La felice coincidenza dell’intreccio tra l’esperienza sinodale e l’anniversario del Concilio, ci permette di rammentare lo spirito conciliare in merito al ruolo dei laici nella Chiesa come definito nella Costituzione Lumen Gentium e nel decreto Apostolicam Actuositatem. Anche in altri documenti conciliari si trova occasione per accennare al compito che viene attribuito ai laici nei diversi ambiti della missione della Chiesa. Tra tutti spicca la Costituzione Gaudium et Spes, il documento sintomaticamente più nuovo del Concilio. Descrive l’atteggiamento di apertura, di interesse, di sintonia e di solidarietà della Chiesa nei confronti del mondo contemporaneo e la volontà di contribuire con esso a costruire un ordine umano più giusto. La Chiesa, ci ricorda il documento Conciliare, ne condivide nella storia la medesima sorte terrena e cammina nel tempo facendo sue le gioie e le speranze, le fatiche e le sofferenze degli uomini. L’ambito della missione non è pertanto solo quello strettamente religioso, ma tutto l’umano, per il fatto che il Verbo ha assunto e portato a compimento il creato nella sua interezza. È infatti, proprio attraverso i laici che la Chiesa intende offrire il suo contributo di azione ai diversi settori della vita sociale. Non più solo attraverso l’insegnamento etico, la critica o la denuncia, ma attraverso una collaborazione che diventa ricerca comune. I laici sono quindi partecipi della missione della Chiesa. La missione della chiesa definisce il ruolo dei laici in una sintesi che il Concilio esprime in Lumen Gentium. Il documento conciliare fonde, aggregandoli, l’aspetto santifico per cui i laici hanno  il compito di santificarsi attraverso le attività secolari, e, più propriamente, il partecipare alla missione (sacerdotale, profetica e regale) della Chiesa. I laici, quindi resi seguaci della missione della Chiesa, popolo di Dio, vi intervengono secondo la loro parte. È precisata anche la loro connotazione secolare in relazione agli appartenenti all’ordine sacro e allo stato religioso.

Ma qual è la caratteristica propria del laico? La teologia del laicato precedente il Concilio, aveva cercato di precisare la differenza tra il clero e i laici, attribuendo al primo l’ambito di azione intra-ecclesiale e ai secondi quello mondano. L’attribuzione aveva il compito di salvare i laici dalla clericalizzazione dato che si era affermato che anch’essi avevano una funzione apostolica. Dunque quale la loro propria funzione? Le coordinate non potevano essere che quelle “relazionali”: con i ministri ordinati e i religiosi e con la realtà creata. In Lumen Gentium il testo con il quale si descrive chi sono i laici inizia con un “Qui” (LG 31) per indicare che assume una prospettiva non dottrinale, ma pratica. Rispetto ai chierici e religiosi, il laico è il cristiano che vive nel mondo ed è occasione di “fermento” alla santificazione del mondo stesso. La condizione vitale del laico è presentata come vocazione, una vocazione sua propria. Vocazione diversa, ma non esclusiva (LG. 31), Tenendo conto delle condizioni di fatto Lumen Gentium riconosce che anche gli appartenenti all’ordine sacro possono “attendere agli affari secolari, anche esercitando una professione secolare” (LG 36). I chierici e i religiosi non sono esclusi dal compito particolare dei laici, ma lo possono attuare per supplenza.

Un ultimo aspetto da considerare è il rapporto di reciprocità tra laici e clero  e la loro autonomia. In forma diffusa il rapporto viene presentato in Lumen Gentium (LG 37): diritti – doveri dei laici e doveri dei pastori. Per quanto riguarda i laici si si richiama il loro diritto a ricevere i beni spirituali della chiesa (la Parola di Dio e i sacramenti) e poi il diritto – dovere di far conoscere il loro parere su ciò che riguarda il bene della Chiesa; infine il dovere dell’obbedienza. Per quanto concerne i doveri dei pastori nei confronti dei laici si pone in primo luogo il riconoscimento e la promozione della dignità e della responsabilità di costoro; da ciò deriva l’ascolto del loro consiglio e la fiducia nell’affidare ad essi degli incarichi. I laici sono allo stesso tempo cooperatori dei pastori e autonomi, entrambi membra dello stesso Corpo di Cristo, animato dall’unico Spirito.

Il Concilio Vaticano II, salutato come evento liberatore per i laici, a sessant’anni di distanza resta in parte prigioniero della visione del laicato di quell’epoca. Ora il cammino sinodale liberi spazio per una autentica esperienza del laicato nella Chiesa. Un’esperienza autenticamente conciliare, non una narrazione sterile.

don Francesco Poli

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PURCHÉ LA PAROLA DI DIO RIMANGA

La gioia di chi ancora vive profondamente la fede cristiana e vuole  la pace, contrasta oggi sia con la tristezza di un mondo in affanno sia anche con la sensibilità di molti battezzati, praticanti fino a poco fa, che ultimamente si sono sentiti prima quasi schiacciati dal peso della Parola di Dio e poi si sono lasciati strappare alla vita della fede per asservirsi allo spirito del tempo che appare sempre più avverso a Gesù Cristo. Così, coloro i quali, fedeli al loro battesimo, sono rimasti uniti alla Parola di Dio, ora si possono contare facilmente, uno ad uno; trovano posto senza difficoltà in chiese sempre più vuote di domenica. Ed anche nelle grandi solennità. È la gioia, quindi la pace, la grande assente dall’umanità in questa stagione storica di forti trasformazioni e violenza. I cristiani stessi, quelli che lo sono non solo anagraficamente, faticano a riconoscere questi doni quale frutto della fede e pregio della vita credente. Anche noi ministri dell’altare, sacerdoti, fatichiamo ad essere nei confronti dei laici “servitori della vostra gioia” (2 Cor. 1, 24). Ultimamente, infatti, una cappa di tristezza sembra avvolgere anche la Chiesa in tutte le sue componenti umane. Forse… è intrinseco un problema?

Il profeta Ezechiele ci ricorda come i deportati d’Israele avevano perso la fede: per loro, quella condizione di schiavitù segnava, insieme alla sconfitta di tutto un popolo, anche quella di Dio. Confidavano solo in se stessi, nella felicità effimera di quel periodo che precedeva la deportazione. Il loro cuore si era infatti indurito, erano ostili rinnegando ogni legame con la loro fede nel Dio di Abramo, sottomettendosi così agli idoli. In quel preciso momento Dio volle mostrare che non era morto, che la sua legge vale sempre, anche quando non la osserva più nessuno, vuole mostrare come la sua Parola rimanga anche in un mondo che gli è ostile. Il cuore del Signore batte anche per il popolo che gli ha voltato le spalle. Così, grazie alla presenza di pochi testimoni della fede, capaci di profezia, il popolo in esilio senza un dio ha avuto inconsapevolmente accanto Chi gli avrebbe permesso la sopravvivenza. Grazie alla presenza invisibile, ma efficace della Parola di Dio, il popolo non si sarebbe confuso né con lo spirito del tempo, né con altri popoli, rimanendo intrappolato nella logica del dominatore che assimila i vinti attraverso il loro sradicamento dalla terra d’origine, dalle tradizioni e cultura. Fu proprio la presenza della Parola di Dio a farsi “Terra Promessa” tutta interiore, da abitare e custodire, mentre esternamente stavano in una terra straniera e desolata.

Nel rivolgimento socio-spirituale degli ultimi anni avviene anche a noi qualcosa di simile a ciò che vivevano quei deportati d’Israele: assistiamo ad uno sgretolamento spirituale, sociale e culturale, le cose mutano così rapidamente che tutta la nostra memoria storica, ciò che siamo stati, risulta essere solo un passato da abbandonare, rinnegandolo. “Dio, la chiesa e una certa cultura… sono morti”, così ci viene detto e questo perché ora conosciamo le leggi che regolano il mondo, conosciamo e possiamo intervenire sull’origine stessa della vita e determinarla. I comandamenti sembrano non reggere più, la cultura di riferimento viene considerata come strumento di dominio e il Vangelo, una favola “politicamente scorretta”, tutte espressioni di un potere che l’uomo del terzo millennio, emancipato e spregiudicato, rigetta. Forse è intrinseco un problema…? Forse no! Infatti questo nostro tempo ci fa riconoscere come Dio sia ancora necessario a che l’uomo e l’umano sopravvivano. Nel mondo d’oggi sono ancora necessari testimoni credibili di Gesù perché la Parola di Dio rimanga viva. Le vicende drammatiche di questi ultimi anni mostrano come il puntare esclusivamente sull’utile non sia ineluttabilmente un bene, né dia dignità all’umano; il pensare solo a noi stessi e al nostro benessere non ci mette al riparo da una crescente e diffusa noia di vivere. La gioia e il desiderio di pace, invero, sgorgano dalla fede testimoniata, la quale, sola, ci permette di lavorare insieme come fratelli e sorelle, impegnati nella trasformazione di questo mondo sempre più insopportabile in un mondo rinnovato: un mondo più vivibile e degno perché capace di custodire la Parola. 

don Francesco Poli

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EDUCARE GIOCANDO

Sognare… che passione! È questo lo slogan che promuove le molteplici attività estive che la comunità cristiana ha messo in campo negli oratori. La proposta si rivolge alle famiglie, ai ragazzi/e ed agli adolescenti, quale concreta condivisione di un “patto educativo” in sintonia con le nuove prospettive pedagogiche e in linea con gli orientamenti della Chiesa, impegnata in un percorso di ricostruzione che dovrà portare a ristabilire, come ci ricorda papa Francesco, “un patto educativo globale” con le nuove generazioni. Il nostro “fare” in oratorio con i ragazzi, le ragazze e gli adolescenti non è del tipo “far ballare l’orso”, cioè l’attivare proposte di gioco e animazione per occupare il tempo; è piuttosto un “fare” che attinge a un “pensare”, meglio ancora è un “dimorare” dentro la vita con sguardo evangelico. Come don Bosco ci insegna. 

La finalità della nostra iniziativa oratoriana è di rilanciare l’impegno per e con le giovani generazioni, rinnovandone la passione educativa. Contestualmente, fare questo significa anche educare persone adulte in modo da sanare divisioni e conflitti, ristabilire rapporti di fraternità in comunità fraterne; combattere la tentazione a rinchiudersi in se stessi entro orizzonti ristretti, a preoccuparsi soltanto dei propri diritti e privilegi, a emarginare la vita nascente e dell’infanzia, come pure quella degli anziani. 

Come dire: la presenza e la semplicità della vita oratoriana in un quartiere fa bene alle giovani generazioni che vi partecipano, ma soprattutto agli adulti che vi abitano. In una società contraddistinta da un cambiamento d’epoca è significativo che la comunità cristiana, soprattutto nella sue realtà territoriali, dia il proprio contributo nella costruzione di identità e di visione educativa insieme ad altri soggetti di un grande “villaggio dell’educazione” per la realizzazione di un percorso che metta al centro le persone. La crescente insofferenza del mondo adulto verso i bambini, anche solo per il fatto che “schiamazzano” nel cortile dell’oratorio nei pomeriggi d’estate e la ridotta “capacità educativa” che gli adulti mostrano verso le giovani generazioni, sono un segnale dell’importante esigenza che si agisca sempre in un contesto di un rinnovato patto educativo globale. L’urgenza di ciò appare dalla rottura della solidarietà tra le generazioni. Dietro questa condizione si nasconde l’ideologia di chi non tiene in alcuna considerazione né il passato né l’esperienza degli anziani e sollecita a concentrare il proprio interesse solo su di sé e il presente.

Alla rottura della solidarietà intergenerazionale si accompagna la diffusione di comportamenti di chiusura, di isolamento come anche di “adorazione del proprio io”. Le attività con i ragazzi/e ed adolescenti nei mesi estivi intendono, anche quest’anno, portarci insieme, minori e adulti, a vivere più solidarietà nel rispetto reciproco delle diversità (sociali, culturali, religiose e sessuali), restituendo così alla fraternità la sua centralità, adottando come parole d’ordine “insieme” e “noi”. Anche la pervasiva penetrazione della cultura delle nuove tecnologie informatiche e comunicative va monitorata e circoscritta. Non si tratta ovviamente di opporsi all’uso delle tecnologie, quanto l’offrire una proposta educativa che ne abiliti i giovanissimi al loro uso critico e li orienti nelle problematicità che esse creano nella società. Infatti nonostante il moltiplicarsi di interazioni seducenti, l’impatto su bambini e adolescenti tende a provocare povertà interiore o peggio, disgregazione psicologica. 

Ben venga allora l’estate dell’oratorio, luogo nella comunità che ristabilisce relazioni tra persone capaci di presente, come pure di passato e di futuro. Un sogno? Appunto: Sognare… che passione!

don Francesco Poli

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Il CAMMINO SINODALE delle chiese in tempi difficili

Giovedì 25 novembre 2021 si è concludeva a Roma la 75a Assemblea Generale Straordinaria della CEI il cui intento era ed è quello di rilanciare la vita delle Chiese che sono in Italia realizzando in esse e nelle realtà ecclesiali quel “camminare insieme” che consente di conformarsi alla specificità della loro missione. Anche papa Francesco, intervenendo all’apertura dell’Assemblea generale dei Vescovi, insisteva sulla necessità di essere una Chiesa sinodale con un cammino di comunione, partecipazione e missione conformemente alla missione di annunciare il Vangelo che ad essa è stata affidata. Francesco invitava tutta la Chiesa italiana ad interrogarsi sulla sinodalità: tema centrale e decisivo per la sua specificità; esperienza di sinodalità che si inserisce nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II. Fu Paolo VI ad istituire lo strumento collegiale del Sinodo dei Vescovi, correva l’anno 1965. Era una scelta di metodo per dare continuità alle istanze del Concilio perché camminando insieme la Chiesa avrebbe potuto sperimentare che ciò che andava attuando era quello che più rende effettiva e manifesta la natura della Chiesa, essendo essa popolo di Dio pellegrino e missionario. Oggi, nel vivere questa esperienza di Chiesa sinodale, non può né deve mancare il riferimento al Concilio Vaticano II. E ciò in particolare per le ultime generazioni, quelle che non hanno vissuto in prima persona la stagione conciliare. Particolare attenzione e oggetto di approfondimento merita lo studio della categoria di “Popolo di Dio”, categoria, inserita nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium, che si presenta come chiave di lettura dell’esperienza ecclesiale.

Al momento, se si vuole intraprendere un’esperienza di discernimento comunitario partendo dalla base delle parrocchie, delle diocesi e delle esperienze associative, è senz’altro utile riprendere due testi approvati dal Consiglio Episcopale permanente della CEI: Messaggio ai presbiteri, ai diaconi, ai consacrati e a tutti gli operatori pastorali e una Lettera alle donne e agli uomini di buona volontà e disponibili sul sito della Conferenza Episcopale Italiana. «Le nostre Chiese in Italia – spiegano i Vescovi nel Messaggio – sono coinvolte nel cambiamento epocale; allora non bastano alcuni ritocchi marginali per mettersi in ascolto di ciò che, gemendo, lo Spirito dice alle Chiese. Siamo dentro le doglie del parto. È tempo di sottoporre con decisione al discernimento comunitario l’assetto della nostra pastorale, lasciando da parte le tentazioni conservative e restauratrici e, nello spirito della viva tradizione ecclesiale – tutt’altra cosa dagli allestimenti museali –, affrontare con decisione il tema della “riforma”, cioè del recupero di una “forma” più evangelica; se la riforma è compito continuo della Chiesa (“semper purificanda”: Lumen Gentium 8), diventa compito strutturale, come insegna la storia, ad ogni mutamento d’epoca».

Il Cammino sinodale è, dunque, un processo atto ad aiutare a «riscoprire il senso dell’essere comunità, il calore di una casa accogliente e l’arte della cura». «Sogniamo una Chiesa aperta, in dialogo. Non più “di tutti” ma sempre “per tutti”», scrivono i Vescovi nella Lettera indirizzata alle donne e agli uomini di buona volontà: «Tu che desideri una vita autentica, tu che sei assetato di bellezza e di giustizia, tu che non ti accontenti di facili risposte, tu che accompagni con stupore e trepidazione la crescita dei figli e dei nipoti, tu che conosci il buio della solitudine e del dolore, l’inquietudine del dubbio e la fragilità della debolezza, tu che ringrazi per il dono dell’amicizia, tu che sei giovane e cerchi fiducia e amore, tu che custodisci storie e tradizioni antiche, tu che non hai smesso di sperare e anche tu a cui il presente sembra aver rubato la speranza, tu che hai incontrato il Signore della vita o che ancora sei in ricerca o nell’incertezza…». Insieme ai due testi, è stato diffuso il crono-programma che si dispiega per l’intero quinquennio 2021-2025, con tutte le tappe del Cammino sinodale. L’avvio sarà definito in un biennio di ascolto (2021-2023), ovvero in una fase narrativa che raccoglierà in un primo anno i racconti, i desideri, le sofferenze e le risorse di tutti coloro che vorranno intervenire; nel periodo seguente invece ci si concentrerà su alcune priorità pastorali. Farà seguito una fase sapienziale nella quale l’intero Popolo di Dio, con il supporto dei teologi e dei pastori, leggerà in profondità quanto emerso nelle consultazioni capillari (2023-24). Un momento assembleare finale, nel 2025, in via di  definizione, cercherà di assumere alcuni orientamenti profetici e coraggiosi, da riconsegnare alle Chiese nella seconda metà del decennio. Tutti gli eventi si inseriscono in un percorso espressione di una Chiesa che si apre e che dialoga. 

Dei vari nuclei tematici proposti per il confronto sinodale, sono in particolare due quelli che hanno una valenza rilevante per il cammino: quello del dialogo tra chiesa e società. Affrontare questi temi significa accettare di mettersi in una condizione di evidente discontinuità rispetto ad un modello di Chiesa che ci ha rappresentati fino ad ora. Vivere la sinodalità significa dunque fare uno sforzo evangelico per pensare come sia possibile superare una esperienza di Chiesa fatta spesso di immobilismo, superficialità, di individualismi egoistici in cui oggi ci troviamo a vivere come comunità. La domanda che potremmo porci è: quale sinodalità abbiamo mai vissuto nella nostra Chiesa? Quanta corresponsabilità viene vissuta nella nostra Chiesa locale? Talvolta i consigli pastorali affrontano questioni marginali alla vita stessa della comunità credente, lasciando poi la responsabilità dell’azione pastorale al parroco, vanificando quindi la corresponsabilità dei laici che pure sono chiamati ad essere partecipi della vocazione “regale, profetica e sacerdotale”. Sono proprio questi, per vocazione, ad essere chiamati operatori di un nuovo modo di testimoniare il Vangelo nella società. È altresì urgente evidenziare come la dimensione missionaria della Chiesa tutta si costruisca attraverso la formazione delle coscienze in ambito ecclesiale, sociale e anche politico. All’interno del Consiglio pastorale parrocchiale, trovi dunque spazio la dimensione caritativa come ambito di sinodalità e cura verso i poveri e i fragili. 

Il cammino sinodale che siamo condividendo come Chiesa, ci renda sempre più umani per condizione, figli e figlie di Dio per adozione filiale, fratelli e sorelle per vocazione. Al contrario, la frammentazione culturale a cui oggi siamo esposti, ci spinge ad ignorarci, cosicché  a volte si assiste ad una catena di scontri umani molto aspri, acuiti dalla cultura dello scarto e del consumo. Il cammino sinodale intrapreso si traduce in un impegno a creare spazi concreti di legami, relazioni, riconciliazione, formazione. Si deve così cercare di ricucire e sanare storie di odio e di violenza, causate dalla povertà, dall’emarginazione e dalle guerre. Perché ciò avvenga, occorre saper guardare con amore la Chiesa e il mondo. Guardarli con gli stessi occhi di Cristo.  Diventiamo un popolo che cammina verso un nuovo modo di sapersi affratellati nell’amore. L’esperienza di una Chiesa sinodale non è solo “esperienza umana”, ma è camino di Dio con il suo popolo. E siccome è cosa anche di Dio, a noi spetta camminare con fiducia: il Signore lo renderà possibile.

don Francesco Poli