CRISTIANI, PRIMA E DOPO "LA CURA"

“O tu di poca fede, perché dubitasti?”, chiese Gesù a Pietro, chiamato dal Maestro a camminare sulle acque, con Lui. Il racconto evangelico (Mt. 22 – 36) mostra Gesù che sulle acque va incontro agli apostoli impauriti sulla barca nel lago in tempesta, e invita Pietro a raggiungerlo. La scena è una rappresentazione della scelta cristiana che comporta sia il riconoscimento della potenza salvifica del Maestro come pure il cammino del credente dal turbamento al coraggio della fede, attraversata dal dubbio e dalla paura di affogare. È il dubbio il passaggio con il quale dovremmo tutti confrontarci. Lo si può attraversare in un doppio senso di marcia. Nel testo evangelico di riferimento il dubbio sta a metà strada del cammino tra l’incredulità e la fede. Nella direzione opposta il dubbio sta a metà strada tra l’adesione credente di chi vive la vita religiosa e l’incredulità dell’abbandono della fede. Per una fede genuina e adulta, è necessità che il non credente dubiti del suo non credere e che il credente dubiti del suo credere.

Dubitare sembra essere il passaggio obbligato per raggiungere la fede adulta o, viceversa, per il ritorno dalla fede all’incredulità. Il necessario esercizio del dubitare, considerato oggi come “un ferro vecchio”, porta l’essere umano a comprendersi qual è: come unità complessa, al tempo stesso egli è un essere biologico, psicologico – spirituale e culturale. Unità complessa che non prevede scissioni: da un lato il cervello e il corpo umano in biologia, dall’altro la mente in psicologia… Portiamo in noi non soltanto l’animalità biologica, ma la vita dalla sua forma primordiale, siamo costituiti da migliaia di cellule, portiamo in noi la storia stessa della vita del pianeta. La natura è in noi, come noi siamo nella natura. Ciò che è più naturale in noi come il nascere, il mangiare, l’amare, il morire è allo stesso tempo ciò che vi è di più culturale.

Oggi, dopo innumerevoli conquiste scientifiche da quelle straordinarie di Carlo Linneo a quelle di Adam Smith, l’essere umano è definito “sapiens” per la ragione, “faber” per la tecnica e “economicus” per l’intraprendenza. Infatti, nello scorrere della storia questa suddivisione si è sempre più consolidata fornendo alla ragione, nella sua razionalità, una egemonia totalizzante, trascurando prima e quindi espellendo dalla ragione solo razionalista altri aspetti della complessità umana quali la dimensione irrazionale e quella mitico-spirituale, il mondo dei sentimenti e delle passioni. L’esperienza fattuale invece ci consegna un’altra storia: mostra come ragione e passione possano stare insieme. Le passioni, per ciò che le concerne, nutrono e orientano il vivere, ma vanno sempre illuminate da quella torcia che è la ragione, altrimenti la passione può portare alla follia o alle conseguenze estreme dell’irrazionale come ben sappiamo dai fatti di cronaca. D’altro lato la ragione non deve rimanere fredda, né solo calcolatrice e razionale, rinchiusa nella sua “logica”, interessata, ma deve farsi ragione “sensibile” a tutto ciò che ci interpella in quanto esseri umani. A tale proposito scrive Edgar Morin: “Adesso la nostra epoca conosce il delirio dei fanatismi che si moltiplicano, la follia delle illusioni che si credono razionali, le cecità di una razionalità puramente tecnica ed economica, che ignora le realtà profonde dell’umano”.

Possiamo affermare che l’esercizio necessario e urgente del “dubitare” apre alla possibilità della fede, del credere, come anche del non credere: alla decisione di decidere per la vita anziché per il “tirare a campare” e così sprofondare nel nulla. La missione salvifica di Gesù per raggiungerci attraversa lo spazio che intercorre tra queste possibilità, aprendo così la via all’umanizzazione dell’uomo. Il vangelo ci interroga sulla condizione del vivere quotidiano: non allineati alla visione dominante che vuole che ogni soluzione, ogni salvezza siano di quella natura tecnico-scientifica che esclude dal proprio orizzonte l’importanza e la forza dell’immaginario, dell’irrazionale, del mito e della religione.

L’essere umano non è il padrone onnipotente delle scienze e delle tecniche, è piuttosto un essere debole, disarmato e fragile. Saremmo ciechi se trascurassimo o eliminassimo dal nostro orizzonte vitale le dimensioni non razionali. È fondamentale riconoscere e dare spazio al bisogno di fede, di speranza, rendendoci capaci di rigenerare vita. Consapevoli che ciò che non si rigenera degenera. Pietro che cammina sulle acque rappresenta noi e la Chiesa: quando volgiamo gli occhi a Gesù, attraversando il dubbio nella direzione della fede abbiamo fiducia in Lui e riusciamo così ad avanzare; viceversa, quando, nel dubbio, anziché orientati dalla e alla fede guardiamo solo alle nostre difficoltà, ci impauriamo e affondiamo.

La scarsa attitudine oggi nella pratica del dubitare sembra accelerare il disimpegno nei confronti della domanda religiosa che attraversa l’umano: cosa significa avere una fede adulta? Ci consegna a una condizione del cristianesimo che in questi anni si evidenzia con tutte le sue conseguenze, come quando si finisce “una cura”.

Il venire meno, nel corso degli ultimi decenni, dell’apertura all’umano attraverso il passaggio necessario dal dubbio alla fede, ha offuscato il senso religioso mostrando, soprattutto alle nuove generazioni, ciò che sta davvero a cuore agli adulti. Lo scrive con efficacia Armando Matteo: “Nel cuore degli adulti di oggi c’è posto per tutto: dalla squadra di calcio non a caso detta del «cuore» all’auto dei sogni, dalla ricerca di sempre maggiore disponibilità di denaro all’ossessiva ricerca di restare «sempre giovani», dalla possibilità di un esercizio della sessualità e della propria capacità di attrazione erotica senza più alcun limite biologico sino alla smisurata apertura a tutte le novità che l’apparato tecnologico mette a disposizione dei consumatori odierni, dalla volontà di non far mancare nulla ai figli al desiderio di tenerli con sé per sempre. Ecco, in quel cuore, c’è posto per tutto tranne che per l’esperienza religiosa”.

Questa “la cura” a cui ci siamo sottoposti in questi ultimi quarant’anni, quella che ha portato al mancato raggiungimento del credere, di una “fede adulta” da mostrare nella vita anche alle giovani generazioni. E le cause sono da ricercarsi da un lato nella mancanza di fede degli adulti, dall’altro in uno scadente investimento pastorale che non ha promosso il passaggio al dubitare, all’interrogarsi sull’essere credenti e aprire così all’incontro personale con Gesù e approdare ad una fede adulta. È infatti la fede di noi adulti, quando c’è, a generare la fede adulta nei giovani e nella comunità sottraendo quest’ultima alla pura conservazione di pratiche pastorali rivolte esclusivamente agli anziani, ai bambini e alle bambine. Come se la vita cristiana fosse “il mondo dei vecchi e dei bambini”, relegati nel loro mondo fatto di nostalgie o infantilismi, estraneo al mondo degli adulti che infatti, sembrano vivere “come se Dio non esistesse”.

Ora, l’allontanamento dalla vita cristiana, amplificato dalla riduzione della presenza dei fedeli alla pratica religiosa della messa domenicale, come anche dalla riduzione della richiesta di sacramenti, dal crescente disimpegno dei volontari e catechisti, non sarebbe quindi da attribuirsi esclusivamente alla crisi pandemica che pure ne ha accelerato il corso. La causa principale ci sembra essere il mancato esercizio della dimensione critica della fede, il non porci più domande, alla ricerca di risposte solo funzionali o interessate. È tempo di farsi carico della fede degli adulti, di suscitare il senso di Mistero di Dio. Per poter andare quali testimoni credibili alla ricerca di quanti sono lontani o si sono allontanati dal Signore, è necessario che rendiamo adulta la nostra fede nella comunità di riferimento. Ripartiamo dalla domanda del Maestro: “O tu di poca fede, perché dubitasti?”.