
Una storia d’altri tempi: 15 maggio 1891, più di centotrent’anni fa. Questo il traguardo dalla promulgazione della Rerum novarum di Leone XIII, la prima enciclica sociale sul lavoro. Il documento scatenò un terremoto, nel mondo operaio e nella stessa Chiesa, ponendo questioni inedite quali l’aggregazione sindacale dei lavoratori e, più ancora, il raggruppamento politico dei cattolici per partecipare alla vita pubblica dello Stato, segnalando sin dall’inizio la “smodata bramosia di cose nuove” (Rerum novarum exercitata cupiditus). Il papa apriva quindi al tema della questione operaia, ma con un pregiudizio negativo verso “le novità” e le sue proposte, tutto sommato prevedibili, erano composte dentro un ordine mondiale oramai al capolinea, anche se poi si apriranno a nuove profezie. Una stagione, quella, molto diversa della nostra: una storia d’altri tempi.
Oggi, la crisi pandemica ha dato l’avvio a molteplici “cose nuove” in un conteso globale di transizione ecologica, sociale, ecclesiale; ad esse noi tutti aderiamo convintamente e non le consideriamo affatto “rerum novarum exercitata cupiditus”, ovvero “smodata bramosia di cose”. Tutt’altro, in uno stile di sostenibilità e sobrietà, le “cose nuove” con le quali oggi ci si confronta vengono assunte con responsabile consapevolezza per il bene futuro dell’umanità e della Terra. Il nuovo scenario globale che si va definendo, i cui i temi nodali fanno presagire il percorso che deve essere intrapreso, rimane tuttavia da verificare: alla luce del Vangelo la corrispondenza tra il modello e la realtà dei fatti, e chiederci se questo modello di sviluppo globale, che ha l’ambizione di delineare un “nuovo umanesimo planetario” sia evangelico: guardi cioè concretamente al bene dell’uomo e della Terra. Infatti è sempre più evidente che tra le priorità, oggi, quella del lavoro sembra essere al più marginale; ciò ci sollecita alla responsabilità di richiamarne la centralità oltre che l’urgenza. Segno distintivo del silenzio in relazione al lavoro è l’indifferenza attorno alla ricorrenza – quarant’anni – dell’enciclica sociale Laborem exercens di Giovanni Poalo II sul tema del lavoro umano.
Il lavoro umano è o non è una delle “cose nuove” che nel passato, come oggi e soprattutto domani, hanno ad essere prioritarie nell’agenda globale? La risposta affermativa dovrebbe nascere spontanea e, rileggendo enciclica di Giovanni Paolo II, evidente: “L’uomo, mediante il lavoro, deve procurarsi il pane quotidiano e contribuire al continuo progresso delle scienze e della tecnica, e soprattutto all’incessante elevazione culturale e morale della società in cui vive in comunione con i propri fratelli (L.E. 1). I quarant’anni dalla divulgazione dell’Enciclica sono trascorsi senza lasciare traccia, senza riflettere ed imparare? La questione, ancora cruciale, è quella di recuperare la centralità del lavoro umano nella sua concretezza e, per noi cristiani, alla luce della prospettiva biblica che indica, sottolineandolo, nel lavoro una delle dimensioni fondamentali dell’esistenza umana. Certamente il lavoro, che continua ad avere una sua dimensione oggettiva, l’attività umana esercitata secondo modalità sempre mutevoli e nuove, ha comunque in sé anche una dimensione soggettiva, l’uomo rimane il soggetto del lavoro. La fonte della dignità del lavoro va ricercata in origine non nella sua dimensione oggettiva, quanto in quella soggettiva. E così è palese che il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso; ne deriva che, nella costruzione di “cose nuove”, sia necessario prima di tutto la dignità del lavoratore, che non dipende dal lavoro che svolge, e si dovrà contrastare la visione materialistica ed economicistica che tratta il lavoro umano come merce; poi si dovrà riconoscere come fondamentale, tra le “cose nuove”, la prospettiva di non ridurre l’uomo a mero strumento della produzione. Qualsiasi lavoro umano, benché comporti sempre uno sforzo, è un bene per l’uomo, sia perché grazie ad esso egli trasforma la natura, sia anche perché esso diventa “umano”, nel senso che assicura la sussistenza e implementa la coesione sociale e il bene comune. La sfida del lavoro, a partire dai giovani, appare oggi una chiave di lettura per affrontare con successo il processo di transizione verso una società più equa, solidale e fraterna. Questo solo non considerando il lavoro in senso astratto, magari sostituendolo con un reddito universale, quanto piuttosto ritenendolo umano: necessario al riconoscimento della dignità umana, che rimane nel tempo, ieri come oggi e domani, la “cosa nuova” da attuare.
don Francesco Poli