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Editoriale

ESSERE FAMIGLIA

Educhiamo al dono e al desiderio

Non un luogo comune, ma un modello: la famiglia che, mai come nel presente, affronta una rivoluzione nella sua azione di educare i figli a vedere e anticipare il futuro, di trasmettere il senso dell’esistenza umana con i suoi doveri familiari e sociali. Non meri possessi narcisistici, ma sentimenti generativi. Questo il compito della famiglia: testimonianza di adultità, di amore per il dono della vita. L’educazione familiare è come l’aceto balsamico, ha bisogno di molto tempo, è presa di coscienza. Ma l’impegno porterà frutti, creerà nei figli la condizione per essere generativi. Frutti che germogliano da un dono che regala loro la condizione di essere a loro volta protagonisti di atti di generosità. Ciò crea dei problemi quando a fronte di questo dono c’è l’attesa, quasi un risarcimento, di veder realizzati i propri desideri, i propri progetti; al contrario è un bene quando i figli sono messi nella condizione di poter realizzare i loro desideri e progetti. Il dono, dunque, può presentare dei rischi se non riconosce l’anima dell’altro: l’originalità dei figli, quando si proiettano su di loro le attese narcisistiche dei genitori, oppure quando il dono è a senso unico, quando cioè sono i genitori a dare senza fornire ai figli la possibilità di fare qualcosa in cambio, condizione che consentirebbe di essere generativi, condizione da cui nasce la fecondità educativa. 

Massimo Recalcati ne I ritratti del desiderio afferma che la parola “desiderio” porta già nel suo etimo la dimensione della veglia e dell’attesa, dell’orizzonte aperto e stellare, dell’avvertimento positivo di una mancanza che sospinge alla ricerca (…). Il desiderio porta sempre con sé una povertà – una lontananza – che è un tesoro. Nel “ De bello Gallico” di Giulio Cesare i desiderantes erano i soldati che aspettavano sotto le stelle i compagni che non erano ancora tornati dal campo di battaglia. Più precisamente l’etimologia della parola desiderio deriva dallo stare sotto il cielo e osservare le stelle in un atteggiamento di attesa e di ricerca della via: desiderare ha il significato di scrutare il cielo per trovare la rotta così da capire dove siamo e dove vogliamo andare. A volte, quando i giovani sono in balia degli eventi, spetta a noi adulti fornire loro un timone ed una bussola per poter imprimere una direzione alla loro vita che potrebbe apparire simile ad una zattera così da immaginare un approdo che consenta loro di realizzarsi. Si deve dunque passare da una logica centrata sul bisogno ad una meta logica del desiderio. Si potrebbe rendere più ricca la relazione educativa se si mettessero in gioco i desideri, portatori di alcune dimensioni che non stanno nei bisogni.

In questo modo, la legge, la regola, il limite, a differenza di quanto potrebbe sembrare non sono più tanto un ostacolo per il desiderio, ma la sua condizione. In un mondo senza legge, senza limite, il desiderio non si genera. Desiderare qualcosa significa infatti concentrarsi su qualcosa di specifico, di concreto, riuscendo a trattenersi dal godere di altre mille stimoli per perseguire solo e soltanto un proprio specifico desiderio. La regola si apre alla disciplina la quale, a sua volta, permette di costruire il desiderio senza che esso sia inghiottito dalle mille possibilità della vita. Si è talmente preoccupati di rendere felici i figli che, evaporando dal ruolo genitoriale, non si è capaci di farli attendere: con una prassi educativa iperprotettiva si concede tutto e subito, …e si uccide il desiderio. È necessario che tra la nascita del desiderio e la sua realizzazione vi sia un adeguato intervallo di tempo. Il tempo in cui il desiderio può crescere nel nostro cuore. Se viene appagato immediatamente non può abitare lo spazio che c’è dentro di noi, non diventa una sorpresa, non acquista la capacità della meraviglia di fronte all’imprevisto. Si comprende, quindi, come attivare il desiderio non significhi fare ciò che si vuole, ma sia un’occasione di crescita che richiede l’educazione al senso del limite. Educare al desiderio significa confrontarsi con il limite come possibilità di realizzazione. L’attesa ed anche i fallimenti, il non compiacere in ogni desiderio o bisogno, stimolano all’impegno e rendono la persona competente. Spesso si è troppo preoccupati che i figli possano soffrire, e così si impedisce loro di venire a contato con la sofferenza. 

La funzione genitoriale non è mai paritaria, ma responsabile e adulta per non creare figli/adulti fragili perché quella felicità che nell’attuale canone sembra essere un diritto genera un effetto contrario alla libertà della persona. Il legame tra genitori e figli è, dunque, una relazione asimmetrica; il compito genitoriale è capire che uso fare dell’autorità, come contrappunto di una vocazione generativa ed educativa. Possiamo diventare genitori cercando di conquistare il consenso dei nostri figli, o accettare la responsabilità di essere autorevoli, sapendo che dalla vera autorità germina la libertà. La genitorialità si esprime così attraverso la “cura responsabile”, dove la “cura” rimanda al polo affettivo della relazione mentre la “responsabilità” esprime il polo etico. Ma come trasmettere questo punto centrale del desiderio a una generazione che non riconosce nessuna legge assoluta, nessun principio di autorità, in una parola ad una generazione in cui il padre è assente? Non c’è altre strada per condurre i propri figli sulla via di una vita ricca e piena di desiderio, di bellezza, che offrire la propria testimonianza di adulti che hanno saputo tentare la vita trovando una propria strada. Non si tratta però soltanto di una testimonianza morale: di dare il “buon esempio”. Si tratta piuttosto di mostrare come potrebbe essere una vita buona, ricca di desideri e realizzata nella realtà concreta e sempre limitata. 

don Francesco Poli