
Il passaggio al nuovo anno, nella fase di declino della pandemia in cui auspichiamo di trovarci, ci sollecita a tentare una riflessione, se pur provvisoria. Siamo impazienti, desideriamo ardentemente che si risolva in maniera risolutiva l’emergenza sanitaria in atto, per ritornare all’ordine abituale. Ma considerare quello che è accaduto solo come un “incidente di percorso”, significa non aver colto il senso, la rilevanza profonda dell’“emergenza” che, già nella sua etimologia, include, indubbiamente, oltre la necessità di superare una fase di drammatico pericolo, anche quella di far emergere ciò che era nascosto. Far emergere – appunto – ciò che da tempo era già presente nel fluire delle cose, anche se non era consapevolmente percepito. Quel malessere esistenziale diffuso e radicato della società, sintomo di una patologia mortale, alimentata dalla bramosia di possesso che ha infettato l’umanità e da cui potremo liberarci solo con dei cambiamenti strutturali profondi, come ci sollecita papa Francesco: il ritorno alla normalità sarà possibile solo attraverso una transizione o forse meglio una rivoluzione culturale e spirituale piuttosto che una restaurazione.
Gli eventi tragici vissuti nei mesi della pandemia, ci hanno indotti a riconoscere come, nel villaggio globale che l’umanità tenta faticosamente di rianimare, ci sia stata soprattutto impreparazione insieme all’effetto sorpresa. Molteplici le carenze emerse nell’emergenza sanitaria: di personale medico, di posti letto in terapia intensiva, di strumenti di protezione individuale, di pianificazione e programmazione emergenziale, di risorse… I cittadini che a buon diritto credevano nell’efficienza del nostro modello di Welfare, (ospedali come presidi sanitari di eccellenza) e nel consulto di strutture sanitarie per le idonee decisioni inerenti la loro salute, si sono purtroppo improvvisamente ritrovati senza possibilità di “parola” di fronte all’emergenza. La corsa, la sosta esterna, l’attesa nei Pronto soccorso degli ospedali, la ghettizzazione e l’isolamento coatto,
fino alla guarigione o alla morte dei malati di Covid 19, ha mostrato l’aspetto più inquietante della gestione: un’organizzazione sanitaria (censita al secondo posto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per la sanità pubblica), polarizzata su ospedali rivelatesi vere e proprie “cattedrali nel deserto”, presidi di cura che, a livello territoriale e domiciliare, hanno palesato drammatiche debolezze. Una narrazione che si è rivelata una “fuffa” circa il dovere di coinvolgere malati e familiari nelle decisioni inerenti le terapie a cui essere sottoposti.
Ecco cosa si intravede emergere dall’alveo di questa emergenza sanitaria: la sicurezza che dava l’ospedale si è incrinata. Ciò di cui ci vantavamo e di cui mai avremmo pensato di dubitare: l’efficienza e la qualità dei nostri luoghi di cura, ben suddivisi e coordinati, sembrano non assolvere alle urgenze della tempesta di Covid-19 e quindi da ripensare completamente. Scienza, tecnologia e medicina: il futuro che desideriamo e che ancora ci viene raccontato essere splendido e vincente, fatto di green e innovazione, da solo, non potrà bastare, anzi, se enfatizzato, potrebbe piuttosto essere dannoso all’obiettivo del bene comune. Non è bastato il balzo in avanti realizzato dalla globalizzazione negli ultimi decenni: nei giorni del Coronavirus i convogli militari visti con i nostri occhi sulle strade della citta, con i loro carichi di morti, ci hanno fatto rievocare altri carri, di manzoniana memoria, che passavano tra le vie carichi di cadaveri appestati. La devastazione ad opera dell’epidemia sta facendo emergere questioni sociali enormi, complesse, stratificate nel tempo, urgenti e pure dimenticate a lungo nel graduale, progressivo disgregarsi della società post-moderna. Non abbiamo voluto consapevolmente prendere atto del profilo di cura che la Terra e gli umani richiedono per essere davvero “fratelli tutti”. Quello che eufemisticamente è stato definito “nuovo modello di sviluppo” o “nuovo ordine mondiale” a venire, si sta rivelando piuttosto, così come lo abbiamo alimentato nella narrazione recente, una trappola. Un nuovo modo di interpretare uno spartito più volte eseguito da sistemi di potere, consolidati, desiderosi solo di riciclarsi in nuovi assetti che li confermino e li garantiscano. Sarà opportuno prendere in esame questioni importanti, non ultimo il sistema di prevenzione e protezione di fronte ad un’emergenza sanitaria, lasciato senza attuazione, come denunciava a fine 2019 il Global Preparedness Monitoring Board: i massimi esperti mondiali di salute pubblica di vari paesi pronosticavano da tempo che un virus avrebbe potuto uccidere milioni di persone in poco tempo. Ora è tempo di un primo bilancio e ci domandiamo dove si collochi la dimensione spirituale nel nuovo scenario globale. La spiritualità appare assente nel villaggio globale che ci accoglie, l’umanità sembra impaurita, spaesata e preoccupata, all’avvio di una nuova stagione di responsabilità sociali capaci di promuovere un futuro che vorremmo più fraterno e solidale. Quello spirituale appare come un tema non “politicamente corretto” nel tempo dell’intelligenza artificiale. Inaspettatamente però, nella promozione del nuovo scenario globale post-pandemia oltre alle misure di programmazione, di previsione e all’esperienza che ci fa apprendere dalle calamità, percepiamo quanto vitale sia il vissuto umano nelle relazioni di reciprocità, sentiamo forte il bisogno di attingere soprattutto a risorse di primaria importanza, beni immateriali quali la dimensione spirituale, quella relazionale e quella culturale.
La Chiesa, in questi cambiamenti epocali, sta giocando una partita inedita, dagli esiti incerti. Essa, nelle sue articolazioni territoriali, è chiamata per vocazione, e ora anche per necessità, a dare corpo alla spiritualità evangelica là dove la vita accade. La Chiesa si trova infatti ad affrontare nell’emergenza sanitaria anche una seconda emergenza, quella pastorale. Il confinamento in casa, con il divieto assoluto di spostamenti, ha sottratto alla comunità cristiana, fin dall’inizio della pandemia, il suo corpo di carne viva – il popolo credente – impedito a radunarsi per la pratica cristiana, anche per celebrare la liturgia eucaristica culmine e fonte della vita credente. Si è così improvvisamente posta la parola fine a una stagione pastorale che ha interpretato negli ultimi decenni sia la crisi del modello di cristianità sia la stagione promettente del Vaticano II. Su questa pastorale sembra calare ora definitivamente il sipario. Aspettiamoci commenti pro o contro, considerazioni e proposte… Dai “resti” di quella pastorale sta prendendo forma e vigore una certa “pastorale del Web” che nei mesi di lockdown si è diffusa con facilità e fantasia portando le parrocchie nell’oltremondo di internet. La facilità, la velocità e talora la superficialità di questa migrazione, insieme ai graditi effetti immediati, rende ancor di più evidente l’incognita di una riflessione sulla pastorale del futuro. Oggi vediamo una certa pastorale emanciparsi grazie alle nuove tecnologie e portarsi là dove sono milioni di possibili destinatari; ma non è detto che là dove ci sia più gente sia il posto migliore. Si ha quasi l’impressione che l’operazione sia stata il semplice trasferimento di contenuti della pastorale in presenza per caricarli sul Web, creando così una copia digitale dell’ “eterogeneità pastorale” rivisitata grazie alla produzione artigianale di chiunque.
La questione che sembra porsi a questo punto è essenziale alla spiritualità della comunità cristiana che per essere tale ha bisogno di incontrarsi in presenza per celebrare i sacramenti. Come affrontare l’equivoco che vede l’allestimento di una “Chiesa digitale” dentro l’oltremondo e questo metterlo in alternanza con il mondo reale, fino ad allestire un unico sistema di realtà formato dalle due dimensioni? Come rimbalzare tra mondo reale e mondo virtuale – digitale ricamando una trama che potremmo chiamare realtà del vissuto ecclesiale? Come far passare la pastorale attraverso il mondo digitale per arricchire di senso e gestire meglio la vita spirituale della comunità credente? Serve una nuova postura del credente per mettere in connessione mondo reale e mondo digitale. Una spiritualità all’altezza dell’homo technologicus: uomo – tastiera – schermo logo della nostra civiltà. La sfida per la spiritualità del futuro è più complessa, deve infatti coinvolgere realtà di due diverse entità: il mondo reale e quello virtuale. La spiritualità credente che sta prendendo forma in questo tempo di pandemia è tuttora come in gestazione. Prende il via da una “spiritualità di comunità” che nella malattia si è fatta povera ed essenziale nell’evangelo, testimoniata anche nell’impossibilità di nutrirsi all’eucaristia domenicale: l’ascolto della Parola e lo spezzare il Pane Vivo. Una spiritualità alla ricerca di nuove forme espressive nella realtà di fragilità e precarietà dell’umano: nelle famiglie con i bambini, con gli adolescenti e i giovani, con le persone ammalate, anziani ospiti nelle RSA che soffrono rassegnati la solitudine, con chi muore senza il conforto dei familiari e dei sacramenti. Ci attende, come battezzati, un compito spirituale immenso e inedito, a partire dal nostro vissuto umano attraversato dalla pandemia e con la responsabilità ecclesiale di saper cogliere alla base di ogni storia personale e comunitaria l’umano. “Diventare umani” ecco ciò che ci è davvero necessario. Voler assumere personalmente e comunitariamente i tratti di una rinascita spirituale che riteniamo irrinunciabile, per avere anche nel futuro gli stessi lineamenti del Volto di Gesù di Nazareth.
don Francesco Poli