
Il messaggio che Euphoria, la nuova serie targata HBO in onda su Sky Atlantic, comunica, racconta al suo pubblico con realismo disarmante è lo sbandamento di un’intera generazione di adolescenti americani alla ricerca della propria individualità. I protagonisti, tutti al di sotto dei 20 anni, non sono in realtà degli sbandati, piuttosto degli smarriti: senza identità, persi in quella dimensione che oggi è definita “gender”, perennemente indistinti, sfuggenti e incerti, se non confusi. Non sognatori, ma piuttosto tormentati, assillati dall’idea che esistano rispetto alla desolazione del reale prospettive più allettanti.
Ragazzi e ragazze che si aggirano, puntata dopo puntata, in cerca di dosi varie: di droga, di sesso, di attenzione, di affetto, di popolarità… Che consumano, ma che, ne hanno la consapevolezza, non basterà, perché nulla di ciò che ottengono è realmente quanto cercano. Il sesso non è divertente, funziona solo come moneta di scambio, per avere un avanzamento sociale, come avviene a Kat; per autodeterminarsi, come fa Nate, o per esistere agli occhi degli altri, come avviene a Jules, pronta a farsi stuprare pur di sentirsi importante.
La droga, raccontata prevalentemente da Rue, è spogliata di ogni fascino e assume un ruolo anestetico, una pausa tra un dolore e l’altro. I ruoli sociali sono massacranti, divorano energie che non si rinnovano. E quando tutto manca, quando i mezzi per trasgredire non ci sono, quando non “fai”, allora filmi ciò che fanno gli altri, per rubare un riflesso che ti metta in luce. A dispetto del titolo, i ragazzi di Euphoria non sorridono mai. Tutti vogliono una cosa sola: rimanere slegati, liberi – dicono – da ogni vincolo o condizionamento. Assecondare l’ideologia dominante, quella per cui si può essere qualsiasi cosa, così da scavalcare l’ansia, quello smarrimento tangibile, reale, continuo e trovare, se non una soluzione, almeno un momento di quiete. Placarsi, tacitare una sofferenza di cui sembrano intrisi e a cui cercano disperatamente di abituarsi. Sono così, autonomi, senza legami che, malauguratamente, sono percepiti come costrizioni.
Una visione, questa, che si va diffondendo velocemente e che ci pare non priva di problemi. Una sfida anche per la nostra società tutta che, come credenti, ci chiama ad una riflessione sul tema dei legami che costituiscono una tappa importante per la formazione personale. Un’intuizione di Aristotele ci può illuminare. Egli riteneva schiavo colui che non ha legami, che cioè non ha una sua collocazione, che si può utilizzare dappertutto e in diversi modi. L’uomo libero, invece è colui che ha molti legami e molti obblighi verso il contesto sociale, urbano/territoriale e se stesso. Paradossalmente, come ci mostra Euphoria, la nostra società persegue un ideale di libertà che assomiglia alla condizione dello schiavo. Eccoci al punto: la nostra società avalla l’idea che tutto sia possibile, che la libertà sia strettamente legata al dominio; fare di tutto per vincere il destino.
Al contrario, per noi cristiani, non si tratta di vincere il destino, quanto piuttosto di vivere nel segno della Provvidenza. Essa, che è da preferire al destino: è un insieme di storie e di desideri che si incrociano e si intrecciano, determinando ogni singolarità: la persona; è un tessuto creato coi legami che sviluppiamo liberamente. Siamo creature costituite da un’identità originaria, divina e da un’identità storica da riconoscere, definire e alimentare con i legami e l’apertura al mondo. Concordiamo con l’apostolo Paolo: sono incatenato alla mia libertà. Una libertà vera, che si costruisce attraverso legami.
don Francesco Poli