
Nel vivere il Natale possiamo figurarci e comprendere quanti e quali siano stati le sofferenze e i disagi per Maria e Giuseppe nel cammino che dal villaggio di Nazareth, in Galilea, li portò a Betlemme per ottemperare ai doveri del Censimento. Ed è qui che avvenne per Maria l’esperienza del parto in condizioni d’emergenza, in un luogo assolutamente inadatto perché, come è scritto nel Vangelo, Non c’era posto per loro nell’albergo. Un’esperienza emblematica quella, che contrasta con il desiderio oggi sempre più diffuso e radicato, alimentato anche da noi stessi, di voler vivere una condizione sempre e comunque felice, senza dolore, condizione assunta quale mission dalla psicologia positiva e strettamente legata al benessere permanente ottenibile, necessario, anche per via medica. La “primitività del generare, far nascere un neonato, separandolo dal corpo materno”, le doglie del parto e ciò che queste condizioni naturali comportano, insieme al disagio e alla precarietà delle condizioni familiari, come nel caso del bambino Gesù, sono un segno indicatore di quella condizione di fragilità e povertà nella quale è posta l’esistenza umana nel suo darsi la vita. In ciò sta l’originario significato del Natale di Gesù: la fragilità e, insieme, la condivisione delle sofferenze e i dolori della condizione umana.
Questa realtà, qualora fosse davvero colta, basterebbe da sola a mostrare il non senso dell’ideologia sempre più diffusa che ha il suo mantra nella necessità di porre quale base del vivere umano una condizione di “benessere permanente”. Esigenza che sta consegnando la nostra società al facile utilizzo di farmaci, in specie quelli originariamente destinati alle cure palliative, che sono molte volte richiesti da persone sane. La società palliativa coincide sempre più con quella delle prestazioni e, in questa visione, il dolore è interpretato come un segno di debolezza, una debolezza da nascondere o da eliminare. La possibilità della sofferenza non ha spazio, non ha diritto di cittadinanza in una società dominata dal saper fare. Così la sofferenza e il dolore, privati di qualsiasi possibilità di espressione, sono condannati, devono sparire.
Prima ancora che il Natale cristiano possa essere definitivamente censurato a motivo di un bambino riconosciuto quale “Dio con noi”, la censura ci colpirà per l’inopportuno rimando all’esperienza della finitudine, del limite, della fragilità, della sofferenza e del dolore che la nascita di ogni figlio o figlia evoca: una visione che è inaccettabile agli occhi di questa nostra “società anestetizzata”. Un’anestesia permanente di una società che impedirà quindi l’apertura della mente e del cuore alla riflessione, al Mistero, opprimendone la verità. L’impellente bisogno di lasciar emergere dalla vita l’esperienza del limite, del dolore e della inadeguatezza, come il Mistero del Natale cristiano straordinariamente evoca, è la condizione necessaria per l’affermarsi di ogni verità. La felicità che tutti noi ricerchiamo, non potrà esistere come chiusura, come la somma dei sentimenti positivi capaci di dare al singolo una condizione di benessere, rimanendo poi sempre uguale a se stessa, escludendo ogni alterità. Alla luce del Mistero del Natale non possiamo che cogliere la felicità in prospettiva relazionale. Saremo davvero felici solo nella condizione di una “felicità accogliente”, una felicità aperta a ciò che non le è proprio, ma che è pure inevitabile presenza nell’esperienza cosmica: il dolore e la sofferenza. Sono essi, infatti, che “sorreggono” la felicità, e la spingono verso la sua pienezza perché illuminata da una speranza che va oltre un benessere psichico-fisico: è fiducia nel Mistero.
Accogliere Gesù accende Speranza, rigenera vita, nutre felicità.
don Francesco Poli